Giuditta

Il libro di Giuditta narra la situazione religiosa del suo tempo. Giuditta insegna che: la sofferenza è pedagogica per la crescita nella fede.

Giuditta richiama l’eroina giudea che salvò il popolo ebraico da Oloferne al quale tagliò la testa, liberando il popolo ebraico da morte sicura. La storia narrata in questo libro è anacronistica e la vicenda fantasiosa. Gli stessi nomi più che persone indicano realtà particolari. ‘Betulia’, dove la storia è ambientata, non esiste. "Betulia" significa, però, "la vergine del Signore". Secondo il linguaggio dei profeti richiama simbolicamente "la città in quanto sposa del Signore”. "Giuditta" è il femminile di "Giuda". Giuditta è la personificazione al femminile della nazione giudaica, la cui vocazione è di essere fedele a Dio. Oloferne, Nabucodonosor, gli Assiri sono tre personaggi e dati storici distanti l’uno dall’altro. Oloferne è un generale persiano, Nabucodonosor è re dei Babilonesi e gli Assiri al tempo di questo re non esistevano più.

L’autore sacro ‘inventa’ una città ed una geografia per descrivere più fedelmente possibile, in termini metastorici, la situazione religiosa del suo tempo gravemente minacciata dalla cultura greca. L’intenzione volutamente ironica che associa, nello stesso periodo storico, un generale persiano con un re babilonese e gli Assiri è un modo letterario efficace per dire che tutto il male della storia passata si è come concentrato nel tempo in cui questo libro è scritto. Di fatto, siamo nel II secolo a.C. È il periodo durante il quale il re greco, un selèucida, impose la civiltà greca e la religiosità pagana a Gerusalemme e arrivò a profanare il Tempio, intronizzandovi divinità pagane. In praticail potere umano pretende il posto di dio e vuole farsi adorare.
Questa realtà nella storia di Giuditta è indicata al capitolo terzo dove si dice che tutti i popoli devono adorare solo Nabucodonosor e acclamarlo come un dio (Gdt 3,8). Di fatto non si tratta di Nabucodonosor ma della minaccia alla fede di Antico IV Epifane (165 a.C).
Dietro queste constatazioni realistiche e disincantate sull’esperienza umana, emerge la persona credente che, pur vedendo realisticamente la realtà, confessa onestamente di non poterla comprendere.
Evidenzia, però, il valore della gioia della vita e il timore di Dio. La vita è fonte di gioia. Ma è dono di Dio e lui può toglierla quando vuole. Il senso della morte, il trascorrere del tempo, il fallimento dei progetti umani conduce la persona umana a non porsi al posto di Dio. Anzi, il modo esatto di stare davanti a Dio è di averne timore cioè rispetto riverenziale.
Qohelet nella sua radicale riflessione sui problemi esistenziali insegna che la persona adulta affronta realisticamente i perché della vita, con coraggio, senza scappatoie, senza preconcetti. Questa capacità permette di realizzare un rapporto corretto con la vita, con se stessi, con gli altri e con Dio.

La riflessione di Qohelet è molto vicina alla nostra cultura. Oggi che il profitto è considerato il valore dominante, la scienza la soluzione dei problemi, Qohelet ricorda che la vita è nelle mani di Dio, e nessuna cosa può prendere il suo posto. Apprezzando le gioie umane, dice Qohelet, non possiamo dimenticare che la felicità è dono. Ribadendo che tutto è soffio, avverte che nulla di quanto ci appare importante è duraturo: tanto meno la vita basata sul guadagno. Se l’esistenza umana è ‘soffio’ i è qualcosa che non lo è: la capacità di cercare con saggezza (1,13; 3,10-11) la gioia come dono di Dio, ma soprattutto non è vanità il timore del Signore, che libera dall’arroganza e apre al mistero che ci sorprende.

A Gerusalemme diversi credenti reagirono, rischiando il martirio. È l’epoca dove si collocano i libri dei Maccabei e del profeta Daniele. Durante i tre anni e mezzo di guerra contro i greci viene scritto il libro di Giuditta con l’intento di consolare, incoraggiare e ricordare che la debolezza umana del popolo giudaico, rappresentata da una donna vedova, che si affida a Dio, supera la forza dei nemici che si oppongono a Dio. Questi dinanzi a Dio appaiono come una nullità. E il popolo dovrebbe aver paura del nulla?
Giuditta appare quando i capi scoraggiati rischiano di consegnarsi al nemico, cioè alla paganità. Giuditta insegna loro che le prove servono per rivitalizzare la fede: “Oltre tutto ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava i greggi di Labano suo zio materno. Certo, come ha passato al crogiolo costoro non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuol far vendetta di noi, ma è a fine di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino” (Gdt 8, 25-27).

La prova è pedagogica e la sofferenza è uno strumento per la crescita nella fede. Occorre affidarsi a Dio nella preghiera e poi agire, nel suo nome, con coraggio. Nella prospettiva biblica Giuditta richiama Giaele e Davide. Giaele uccise il generale che minacciava il popolo; il giovane Davide, senza armi, uccise Golia e gli tagliò la testa con la sua stessa spada. Queste due immagini hanno certamente determinato l’autore sacro a scrivere una storia che si ispira a questi fatti passati per illuminare il suo presente e tutti i tempi nei quali la fede è minacciata dal paganesimo secolarista, che è il vero nemico da abbattere.
Il libro di Giuditta fa parte dei libri deuterocanonici, riconosciuti ispirati in un secondo elenco. Il motivo è perché si conosce il testo greco e non quello ebraico, la lingua che gli ebrei riconoscono sacra.

libri dei Maccabei (1Mac 1,44 ss; 2 Mac 6, 2 ss) descrivono la minaccia alla fede ebraica da parte della cultura greca e aiutano a capire che il libro di Giuditta è una risposta di fede a situazioni come questa.

Il capitolo 26, 1-11 presenta il credo storico d’Israele. Questa memoria storica mostra che sia la fede giudaica come quella cristiana si basa su di una narrazione che si fa ‘memoriale’ da narrare, soprattutto in contesto liturgico.